Presentazione

C’è un capitolo dell’ultimo libro di Primo Levi, I sommersi e i salvati, uscito nel 1986, un anno prima, cioè, della morte dell’autore, intitolato La vergogna. Levi affronta con durezza e lucidità il «senso di colpa», il «disagio indefinito», con cui hanno dovuto fare i conti i sopravvissuti al Lager. La vergogna di essere vivo «al posto di un altro». E forse di un uomo «più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere» di colui che si è salvato.

Racconta, in quella stessa sede, che di ritorno dalla prigionia si era incontrato con un amico. Questi, contento di ritrovarlo vivo, volle vedere nella sua salvezza un segno divino. La salvezza rendeva Levi un eletto: forse perché avrebbe dovuto scrivere la sua storia e, scrivendo, portare testimonianza.

Tale opinione parve a Levi «mostruosa». Egli,infatti, non riteneva che i salvati fossero i migliori. Era convinto, al contrario, che la terribile condizione di vita del Lager avesse lasciato sopravvivere proprio i peggiori, «gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie».

Lo scrittore ha cercato in qualche modo di meritarsi il privilegio della vita attraverso la testimonianza. Pur nella amara consapevolezza di rappresentare, in quanto sopravvissuto, una straordinaria eccezione in una storia che ha la sua regola nello sterminio. In fin dei conti, «noi toccati dalla sorte – scrive Levi – abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso “per conto di terzi”, il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio».

Ma cosa accadrà nel momento in cui anche l’ultimo testimone sarà scomparso? Sarà sufficiente il momento istituzionale del «Giorno della memoria» per continuare a riflettere su ciò che è stato? Per continuare a dare voce a «chi ha visto la Gorgone», a chi ha toccato il fondo nell’esperienza del Lager, a chi non è tornato o a chi è restato muto? David Bidussa, che si è interrogato su tali questioni nel volume Dopo l’ultimo testimone (2009), ricorda che, quando scompaiono i testimoni diretti, «restano dei racconti e la capacità o la volontà di attivarli da parte di un pubblico che nella sua maggioranza è costituito da spettatori».

È quanto abbiamo cercato di fare con l’esperienza che qui viene restituita. Abbiamo preso dei racconti e abbiamo provato a metterli in circolazione. Abbiamo provato a dare voce a storie vissute da altri e affidate alle pagine di un libro. Abbiamo provato a immaginare una ideale staffetta tra passato, presente e futuro. Nella forma di voci che parlano «per conto terzi».

Enzo R. Laforgia


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